Putin perderà in Ucraina, e in Russia comincerà la guerra civile

«La guerra non è solo cannoni che sparano. La guerra sono le vite delle persone che vanno a rotoli», dice una delle voci del libro, quella di una giornalista. «La guerra è personale», aggiunge l’autore. “L’ora del lupo” di Valerij Panjuškin, appena uscito per e/o, prova a correggere le statistiche di feriti e sfollati, conteggiati a migliaia, per documentare invece quelle vite, facendole «conoscere personalmente» ai lettori.
In una delle prime pagine, un bimbo chiede alla mamma se Vladimir Putin non abbia dei figli. Ce li ha, risponde lei, «è il cuore che gli manca». Il volume racconta questo lato del conflitto, lontano dalle linee militari, o che le attraversa, umano e soprattutto umanitario, tra civili e rifugiati. Chi scappa, chi ritorna: non sono stadi binari, né definitivi, è l’esistenza sospesa dei profughi, dove terrore, coraggio e abnegazione coabitano lo spazio di un respiro sincopato.
Tra le storie, Panjuškin porta con sé quella di un piccolo di Mariupol’. Ha cinque anni, si nasconde in una casa distrutta. Non lo trovano più, non c’è tempo per cercarlo nell’esodo, altrimenti saranno uccisi tutti. Da russo, il giornalista dissidente sente la consapevolezza di appartenere a un popolo aggressore. «L’unica conseguenza possibile e immaginabile è il suicidio», scrive. Se non lo fa, è perché si dà la missione della testimonianza.
«Le immagini di Bucha azzerano la speranza che un giorno russi e ucraini possano parlarsi», riconosce nel penultimo capitolo. «Con i miei amici ucraini, comincio ogni discorso chiedendo perdono – dice –. Loro mi dicono “Ma tu cosa c’entri?” eppure io mi sento colpevole. Pagavo le tasse con cui sono stati costruiti questi missili. Non tutti, ma almeno un missile a Putin l’avrò comprato io. Semplicemente pagando le tasse».
L’urgenza di scusarsi. La realtà di essere responsabili, secondo gradi diversi; sentirsi tali. L’autore litiga con il papà, smettono di parlarsi. Non è imbevuto di propaganda, non solo. «Capiva bene come stavano le cose, ma non poteva accettarle». Vale lo stesso per l’intera società russa? «La maggioranza, penso, è come mio padre. I russi non possono vivere da soli, questo è uno dei più grandi problemi post-sovietici».
Panjuškin fa questo esempio. Per volare da Vladivostok a Mosca ci vogliono otto ore, ma in quell’arco di tempo non si dipanano dialetti – si parla la stessa lingua – né cucine regionali. In Italia, dove ha studiato da giovane, invece basta spostarsi da Parma a Firenze per trovare altri piatti e specialità. «I russi sono troppo uguali e per questo non sanno vivere insieme, essendo diversi. Diversi, per loro, vuol dire nemici».

Un dato sui benefici sanitari della democrazia. Nei grafici dell’Ucraina indipendente, che inizia a trattarla, l’Aids si stabilizza e rallenta. Putin la demonizza e la malattia accelera. Per noi occidentali è incomprensibile che i russi non vedano questi vantaggi, così evidenti, alla portata di un futuro alternativo ogni giorno meno possibile. Che credano difensiva una guerra su suolo altrui, come in una distopia orwelliana dove il bianco è il nero e la bugia verità.
«Sono emigrato perché la speranza non la vedo più. Forse dopo dieci, venti, cento, mille anni. Nel mio futuro e in quello dei miei bambini, non vedo la possibilità di questo cambiamento. Finché l’ho visto, sono stato in Russia e ho provato a fare qualcosa», riflette l’ex firma del Kommersant, che ha dedicato inchieste decennali al monolite del regime putiniano e al suo Olimpo.
Cosa è mancato a quella battaglia? «Direi il supporto. Un sopporto europeo. Era molto facile immaginarsi i russi come i miliardari che compravano ville a Forte dei Marmi. Invece no, non è l’unico modo di essere russo». Quindici anni fa, Panjuškin ha scritto un libro su Gazprom, tradotto in nell’Ue. «Capisco fosse difficile leggerlo tutto, però potevate leggere almeno la copertina». Ammoniva, inascoltata: «Gazprom, la nuova arma di Putin».
Alla fine del testo, anche l’autore varca la frontiera, come tantissimi suoi connazionali. Cerca rifugio in Estonia. Oltre il confine, un fosso straripa di tazze e spillette con la zeta simbolo dell’invasione. Una presa di distanza tardiva? «Se vai in un bar a bere un caffè, tutte le tazzine hanno la zeta. Non partecipi, ma partecipi, come i tedeschi e gli italiani durante la Seconda guerra mondiale, se non erano partigiani, e non tutti possono essere partigiani. I fucili non funzionano più».
Se «Putin non vuole il Donbas, Putin vuole il mondo», come fermarlo? «Se solo lo sapessi. Tutti siamo mortali, per fortuna – conclude Panjuškin –. Penso che prima o poi questa guerra sarà persa da Putin. Quando accadrà, comincerà la guerra civile in Russia. Ne ho paura, perché adesso abbiamo già un esercito privato di Prigozhin (la Wagner, ndr) e un esercito locale di Kadyrov (il dittatore ceceno, ndr). Ci saranno decine di Prigozhin e di Kadyrov, le forze armate di Gazprom, quelle di Rosneft, eccetera. Lotteranno tutti contro tutti. Cinque, dieci di loro avranno la bomba atomica e questo sarà il problema per l’Europa».
“L’ora del lupo” di Valerij Panjuškin è arrivato in libreria in questi giorni con edizioni e/o. L’autore sarà in Italia, al festival Libri Come di Roma, oggi alle 16, all’auditorium Parco della Musica.
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