I cinque fattori della diffusione del complottismo in America (ed Europa)

I cinque fattori che hanno infatti permesso che le teorie del complotto mettessero radici così profonde negli Stati Uniti sono presenti, in potenza, anche in Europa.
1) L’anti-intellettualismo, che non è il rifiuto del sapere in sé o l’esaltazione dell’ignoranza, ma lo svilimento di tutta la conoscenza che non avrebbe ricadute pratiche nella vita quotidiana, in contrapposizione al buon senso innato delle masse. Deriva da una sfiducia radicale nei processi di reclutamento del ceto intellettuale (nelle università, nei media, nelle istituzioni scientifiche), che sono considerati chiusi ed elitari, perpetuazione di una dimensione castale. La produzione del sapere sarebbe irreggimentata nelle regole del sistema e sottoposta a pressioni di censura o autocensura per non sfidare l’ortodossia dominante e le relative rendite di posizione. Ne consegue una denigrazione del ruolo dell’intellettuale, mero servitore del pensiero unico, e la ricerca di fonti alternative di conoscenza, al di fuori del controllo dei gatekeepers. Sul piano epistemologico, lo scetticismo nichilista verso le scienze, comprese quelle sociali, segna il ritorno all’antiquato paradigma di causa ed effetto, giudicato più accessibile e democratico, non inquinato dal potere ed espressione di una visione disillusa del mondo, in cui tutto accade perché l’ha voluto qualcuno.
2) Un populismo moralista, paternalista e avanguardista, che impernia la sua retorica nella narrazione tragica della decadenza e nell’insofferenza al pluralismo delle opinioni, causa primaria della scissione del corpo sociale.
Secondo questa concezione, élite corrotte hanno guastato i caratteri nazionali dall’interno, sottoponendoli all’influsso nefasto di contaminazioni esterne. Spetta allora a un’avanguardia di eroi smascherare il tradimento, rivelare la verità e risvegliare una massa intorpidita dalla menzogna, ingenua ma fondamentalmente buona. Uno schema asimmetrico intriso di pessimismo, che presuppone la debolezza morale e intellettuale dei molti di fronte alla manipolazione dei pochi e che è perciò orientato all’impulsività, all’azione e all’estremizzazione della lotta nella speranza di trascinare con sé il resto della popolazione.
3) La visione apocalittica, la rappresentazione di una società così inoltratasi sul viale del tramonto da essere prossima all’estinzione, a cui ci si oppone con una crociata morale venata di tinte religiose.
In questa lotta fra il bene e il male nella loro forma più pura, il nemico assume fattezze mostruose che ne rispecchiano la bassezza morale: è una caricatura umana, ridicola ma comunque pericolosa e inquietante, perché le sue azioni sono unicamente ispirate dall’istinto diabolico di tiranneggiare sugli altri. È il processo della demonizzazione, che inizia con la denigrazione del capro espiatorio, prosegue con la sua deumanizzazione e si conclude con la sua trasformazione nella personificazione stessa del male, o, in una parola, in “loro”. Questo manicheismo fa sì che non si ritenga «il conflitto sociale come qualcosa che può essere mediato e composto, alla maniera del politico di professione. Dal momento che la posta in gioco è sempre un conflitto tra il bene assoluto e il male assoluto, la qualità richiesta non è la disponibilità al compromesso, ma la volontà di lottare fino in fondo».
4) L’atomizzazione dell’individuo, il suo isolamento nella società, a causa dello sfaldamento dei tessuti associativi, del declino delle ideologie e della scomparsa dei partiti di massa, aggregatori e organizzatori del consenso.
Emarginato dalla partecipazione alla vita pubblica e suggestionato da un pensiero libertario che vede lo Stato come un Leviatano totalitario, l’individuo si asserraglia in una fortezza, custodendo con paranoica gelosia le poche libertà che teme gli siano rimaste. Le uniche sortite offensive sono per picconare gli ultimi vincoli che lo legano allo Stato, a cui crede di non dovere nulla e da cui non si aspetta altro che oppressione. Questa prospettiva ultralibertaria e iperindividualista lo sposta verso quello che gli storici delle idee Quinn Slobodian e William Callison hanno definito diagonalismo (dal movimento complottista tedesco Querdenken, cioè ‘pensiero diagonale, trasversale o laterale’).
È una radicalizzazione tipica sia delle destre sia delle sinistre, intrisa di cinismo verso le democrazie parlamentari, diffidente nei confronti delle autorità, desiderosa di una decentralizzazione del potere a tutti i livelli, affascinata dallo spiritualismo e da dottrine anticonvenzionali, e suscettibile ai richiami, per quanto dissimulati, dell’estrema destra. «Una caratteristica significativa del diagonalismo – spiegano i due professori – è il rifiuto delle rivendicazioni politiche nel senso convenzionale. L’impulso varia dal tentativo di individui isolati di formare legami sociali alternativi», come quelli vagheggiati dalle comunità complottiste, «al desiderio di lavorare collettivamente per essere lasciati soli».
Alla base c’è la consapevolezza, compiaciuta e sbandierata, di essere una minoranza nella società, l’ultimo baluardo che resiste alla distopia, all’annientamento dell’individuo e alla sua facoltà di pensare liberamente.
5) La sfiducia nelle autorità, a causa di un evento scatenante – una scena primaria – cui viene attribuita la perdita dell’innocenza, il punto di non ritorno da cui ogni orrore diventa possibile.
L’evento traumatico è in genere uno scandalo o una crisi storica in cui è normale e, per certi versi, sano il sorgere di un diffuso scetticismo, ma che si trascina cronicamente negli anni seguenti per il prolungarsi di una serie di fattori di instabilità, seppur non correlati. Allora la sfiducia, che doveva essere passeggera, si aggrava e si trasforma in una crisi di identità collettiva: chi siamo? Qual è il nostro posto nel mondo? Perché prima stavamo bene e ora no? Di chi è la colpa? Il dilemma identitario si risolve in due modi: o con un ritorno immediato al benessere, che restaura la fiducia nel potere, o con la scoperta di un idoneo capro espiatorio, su cui è canalizzato il malcontento e verso cui converge la missione di ricostruire daccapo l’identità collettiva. In quest’ultimo caso, la società si frattura e si prepara allo scontro interno per ristabilire i propri confini, la propria natura e il proprio scopo.
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