I cento anni dall’assassinio di don Giovanni Minzoni e il ricordo del cardinale Zuppi

Giovani, anziani, migranti nel contesto dell’attuale crisi economica e del considerevole aumento della povertà. E poi ancora guerra in Ucraina, tutela dei minori dagli abusi, Cammino sinodale italiano non senza una sentita rievocazione di Benedetto XVI e fratel Biagio Conte, recentemente scomparsi l’uno a poca distanza dell’altro. Sono questi i temi principali affrontati lunedì dal cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei, nell’articolata introduzione ai lavori della sessione invernale del Consiglio episcopale permanente, che si conclude oggi a Roma.
Questione complessi e tra loro disparate, che il porporato ha armonicamente concatenato in un triplice richiamo anniversario: i settantacinque anni dell’entrata in vigore della Costituzione «nata dal ripudio del fascismo e della guerra», i cento della nascita di don Lorenzo Milani, i cento della morte di don Giovanni Minzoni.
In realtà Zuppi ne aveva già parlato il 26 novembre nel corso d’una lunga intervista sul palco milanese del Parenti, cornice della IV edizione del Festival de Linkiesta, rivendicando tra gli applausi l’antifascismo come fondamento della nostra Repubblica e rievocando la figura di don Minzoni, del cui omicidio per mano squadrista ricorrerà il 23 agosto il primo centenario.
A sorpresa il presidente della Cei aveva allora annunciato l’intenzione di commemorarlo insieme, per l’appunto, con Lorenzo Milani, il cui anniversario cadrà il 27 maggio. Queste le parole sui due centenari e su Minzoni, cui Zuppi volgeva l’attenzione, una volta disaminato lungamente il modo di rapportarsi del parroco di Barbiana con le donne: «L’anno prossimo sono cento anni dalla nascita di don Milani. E ho pensato che nel 2023 ricorderò due preti: don Milani, appunto, e don Minzoni. Don Minzoni dobbiamo ricordarlo perché vittima del fascismo. E il nostro Paese nasce dalla lotta contro il fascismo. Non c’è storia: e lo dico senza alcun problema. Penso che si tratti di una grande riserva, che ha tanto da ricordarci, perché stiamo parlando delle radici del nostro umanesimo. C’è la radice cristiana, certamente, che è quella, direi, più diffusa e importante. Ma il nostro Paese ha tante radici e, certamente, siamo nati anche da quella della lotta al fascismo. Dunque, don Milani e don Minzoni: uno nasceva e uno veniva ucciso».
Di quest’ultimo il porporato ha l’altrieri menzionato le celebri parole dal sapore profetico: «A cuore aperto, con la preghiera che spero mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte, per il trionfo della causa di Cristo… La religione non ammette servilismi, ma il martirio». A cento anni dall’assassinio è dunque quanto mai opportuno riflettere sulla dimensione testimoniale del sacerdote romagnolo. Non solo per dare un vero significato alle celebrazioni anniversarie, ma anche per nuovamente prendere le distanze da certi rigurgiti nostalgici e letture revisionistiche del fascismo.
Quella di Giovanni Minzoni è una vita che affascina e commuove. Nato a Ravenna il 29 giugno 1885 e ordinato sacerdote il 19 settembre 1909, è sin dagli anni di seminario attratto dalle idee democratico-cristiane di Romolo Murri, cui si sarebbe progressivamente discostato dopo la scomunica. Sensibile alle istanze di rinnovamento religioso e culturale incarnate dal modernismo, ammira Fogazzaro e nel 1914 consegue il dottorato presso la Scuola sociale di Bergamo con una tesi sul Cristo storico.
La prima guerra mondiale lo vede inizialmente impegnato ad Ancona in un ospedale militare. Quindi, dietro sua espressa richiesta, è dal 1917 al fronte come tenente cappellano del 255° reggimento di fanteria della Brigata Veneto, distinguendosi, soprattutto durante la battaglia del Piave, nel soccorso e nel conforto dei feriti.
Decorato con medaglia d’argento al valore militare, Minzoni si mostra però sempre scevro tanto dalla retorica nazionalista e interventista quanto dalle istanze pacifiste: nel suo agire è unicamente animato da sentimenti patriottici. Ciò lo porta a considerare un onore e ad accettare con entusiasmo l’incarico di consegnare a Gabriele D’Annunzio una medaglia d’oro del reggimento. L’incontro avviene a Venezia, il 4 febbraio 1919, nella Casetta Rossa del Vate in un clima di grande intesa amicale. Ne sono testimonianza le Memorie minzoniane, ampiamente integrate (rispetto alla prima edizione curata da Lorenzo Bedeschi) e ripubblicate nel 2012 da Rocco Cerrato e Gian Luigi Melandri.
Avversione piena è invece quella che il sacerdote mostra verso il fascismo, del cui fondatore Benito Mussolini si era già formato un’idea esatta, ascoltandolo nel 1917 durante un comizio a Milano. Ad Argenta, grosso centro agricolo del Ferrarese – dove già nel 1910 aveva iniziato a esercitare il ministero nella parrocchia di San Nicolò per divenirne poi parroco nel 1919 – la sua attenzione alle masse contadine, l’impegno per risollevarle attraverso la fondazione d’una cooperativa, la promozione dell’educazione giovanile con l’istituzione del doposcuola, della biblioteca circolante, del teatro parrocchiale, dei circoli cattolici maschile e femminile, delle due sezioni scout gli valgono l’opposizione prima dei socialisti, poi, a partire dal maggio 1921, dei fascisti, divenuti col ricorso sistemico alla violenza detentori assoluti del potere locale. Quest’ultimi assumono atteggiamenti sempre più ostili e minacciosi dopo le continue esternazioni d’avversione al fascismo, che don Minzoni aveva intensificato nei mesi precedenti la marcia su Roma.
Quando nell’aprile 1923 il parroco di San Nicolò decide di «passare il Rubicone», aderendo al Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo, e di organizzare il 9 agosto nel teatro di Argenta un raduno degli scout cattolici, i vertici ferraresi, che sotto la guida di Italo Balbo stavano procedendo alla fascistizzazione della provincia, ritengono che si sia superato il limite. La sera del 23 agosto 1923 Giorgio Molinari e Vittore Casoni, due squadristi di Casumaro di Cento incaricati di dare una lezione al sacerdote, l’aggrediscono alle spalle con sassi e bastoni mentre sta rincasando in canonica con l’amico e collaboratore giovane parrocchiano Enrico Bondanelli. Le ferite riportate al cranio sono tali che don Minzoni muore dopo una breve agonia, poco prima della mezzanotte.
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